05/12/2020

Cannabis: l’Italia sarà capace di cogliere l’assist dell’Onu?


di Federico Stermieri

Con 26 voti favorevoli, 25 contrari ed 1 astenuto, la Commissione Stupefacenti (Cnd) delle Nazioni Unite si è espressa a favore dell’eliminazione della cannabis dalla Tabella IV della Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961, quella che elencava piante e derivati psicoattivi ad alto rischio. La decisione segue le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) la quale, nel 2019, aveva consigliato all’Onu una rivalutazione in materia articolata su sei differenti raccomandazioni, al fine di favorirne l’uso in campo medico. La prima di esse ammette le ormai conclamate proprietà terapeutiche della cannabis, che potrà ora essere prodotta e studiata a livello internazionale e scientifico contando su una maggior facilità nella trasmissione dei dati tra stati. I malati di Parkinson, sclerosi, epilessia, cancro (e molte altre patologie) di tutto il mondo ringraziano: una decisione epocale consentirà loro un miglior accesso alle cure che gli spettano.

Sia ben chiaro: non esultare per un risultato simile sarebbe da stolti, considerato che le misure internazionali in tema di stupefacenti non venivano aggiornate da oltre 50 anni e che, probabilmente, un dibattito sulla cannabis protratto su rinnovate basi scientifiche porterà all’adozione di politiche sugli stupefacenti meno restrittive. Ci sono, tuttavia, almeno due considerazioni doverose affinché si possa valutare la risoluzione della Commissione nella sua interezza e complessità.

Dichiarare che la cannabis abbia proprietà terapeutiche non significa depenalizzarla.

Il New York Times è il primo a sottolineare che i risultati di questa pronunciazione difficilmente saranno visibili a breve termine. La giurisdizione in tema di narcotici rimane infatti ancora nelle mani dei vari governi nazionali, che potranno decidere se ispirarsi alle linee guida sottoscritte dall’Onu o proseguire su una linea proibizionista. Nonostante tutta Europa (ad eccezione di Ungheria) abbia votato a favore della risoluzione, ad oggi solo Olanda ha depenalizzato possesso, vendita e produzione, mentre in Spagna è consentita la coltivazione e consumo in forma associata oppure entro le mura domestiche.

L’Italia sembra particolarmente arretrata in materia: dopo aver consentito la produzione di infiorescenze a contenuto di THC e CBD a uso medico (monopolizzata nello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze e comunque insufficiente a soddisfare la domanda interna), si è aperta una lunga battaglia circa la regolamentazione della filiera della cannabis light. Un settore che, ancor prima del boom generato dal lockdown, forniva lavoro a 10.000 operatori generando un gettito fiscale di 150 milioni di euro annui, per il quale tuttavia ancora manca una legislazione ad hoc. Dopo innumerevoli processi nei confronti di individualità impegnate a vario titolo nel settore e una sentenza controversa delle Sezioni Unite della Cassazione che dichiarava illegale anche la cannabis light, la battaglia è culminata lo scorso Ottobre con un decreto del ministero della Salute che inseriva olio ed estratti CBD nella tabella dei «medicinali a base di sostanze attive stupefacenti».

Il decreto, a firma del Ministro della Salute Roberto Speranza, era stato previsto in vista dell’ingresso sul mercato dell’Epidiolex (farmaco a base di cannabidiolo prodotto dalla GW Pharmaceuticals) e avrebbe consentito una produzione esclusiva ad uso farmaceutico, a discapito di una filiera che da anni si batte per una liberalizzazione produttiva e culturale della pianta nella sua totalità. Il decreto venne sospeso a poche ore dalla sua entrata in vigore, ufficialmente sulla base di maggiori approfondimenti tecnico-scientifici da valutare a un tavolo comune con l’Istituto Superiore della Sanità e il Consiglio Superiore di Sanità, ma non è da escludere la volontà da parte del Ministero di attendere la recente votazione dell’Onu sulle raccomandazioni formulate dall’Oms sul tema cannabis. Eppure, se della prima di queste sei raccomandazioni hanno scritto tutte le maggiori testate giornalistiche, ben poco è stato detto delle altre.

In particolare, se approvata, la quinta raccomandazione avrebbe dovuto aggiungere una nota a piè pagina alla voce relativa alla cannabis nella Tabella I della Convenzione del 1961 che reciti: «i preparati contenenti prevalentemente cannabidiolo (CBD) e non più dello 0,2 per cento di delta-9-tetraidrocannabinolo non sono soggetti a controllo internazionale». Questa raccomandazione è stata respinta con una maggioranza schiacciante (6 sì, 44 no, 4 astenuti) per le motivazioni più disparate, da errori di forma fino alla debolezza della ricerca scientifica in merito agli effetti droganti della modesta quantità di delta-9-tetraidrocannabinolo. A dimostrazione, ancora una volta, che la legalizzazione va bene solo a determinate condizioni e che non vi è alcuna fretta di tutelare coloro che hanno scommesso in un mercato giovane ed ecosostenibile.

La seconda considerazione, questa ben più semplice da liquidare, è che la rimozione della cannabis dalla Tabella IV della Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961 non ne comporta la rimozione dalla Tabella I, grazie alla quale ne sarebbe stato concesso l’uso non solo a scopo tecnico-scientifico ma anche ludico e ricreativo. Insomma, rimangono intatte tutte le conseguenze penali per la commercializzazione, il possesso e l’uso non giustificato da necessità di salute e con esse i problemi indirettamente correlati: un mercato sommerso in mano alla criminalità organizzata e il sovraffollamento indegno delle carceri per reati minori.

Una risoluzione storica può spingere il nostro Paese verso un’ulteriore monopolizzazione del mercato della cannabis, rallentandone la liberalizzazione.

Se, dunque, l’alleggerimento delle regole internazionali potrà dare nuova linfa alla ricerca, siamo ancora lontani da una rivoluzione culturale che ci permetta di vedere la cannabis per quello che è: una pianta, un prodotto della natura che, in quanto tale, può e deve essere a disposizione di tutti.

I macroscenari che possono aprirsi sono due: uno ottimistico e uno pessimistico. Il primo confida nel valore intrinseco della scienza e ci fa sperare che, con le nuove scoperte, impulsi e benefici in campo medico, la cannabis possa finalmente scrollarsi di dosso un tabù ideologico secolare, diventando nel medio-lungo periodo un bene tutelato e fruibile sia da chi ha investito i propri risparmi in attività legali, sia da chi ha optato per una morigerata ma sana autoproduzione. Il secondo, quello pessimistico, è che la cappa burocratica di cui si sta investendo il dibattito possa andare a vantaggio di un ristretto monopolio farmaceutico, prospettiva nella quale non vi sarebbero benefici oltre quelli che si stanno raggiungendo in ambito terapeutico e che riflette la posizione del nostro Paese in materia.

Proprio per questo è bene non considerare la risoluzione della Commissione Stupefacenti come una vittoria in quanto tale bensì come il primo gradino verso l’obiettivo ultimo della liberalizzazione della cannabis, da accompagnare costantemente ad una sensibilizzazione sociale e politica sul tema.